Allenamenti di Mei Kobayashi

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    Allenamento settimanale 1/3

    Dojo Kobayashi, villaggio di Koreto, repubblica di Padokia

    Secondo l'antica Arte marziale tramandata dal dojo Kobayashi, tutto aveva inizio e fine entro il Cerchio degli otto trigrammi. Gli scritti segreti insegnavano che il Cerchio, forma pura e perfetta, era una "zona dell'assoluto", una dimensione entro la quale l'uomo poteva percepire il riverbero, l'insieme di vibrazioni e fluttuazioni cosmiche che legavano e permeavano tutto il creato, apprendendone così la vera natura. Al tempo stesso, padroneggiare l'arte del Cerchio permetteva all'uomo di infondere nella natura il suo stesso riverbero, esercitando così il controllo sullo spirito e sulla materia dell'universo al fine di diventarne il maestro.
    Controllare e apprendere. Maestro e allievo.
    Nel Cerchio degli otto trigrammi, l'uomo insegna e apprende, dice il vero e mente, ama e odia, vive e muore.

    La filosofia dell'Arte era però sprecata su Mei, una giovane testa calda per cui il segreto di famiglia si traduceva nel concetto più consono al suo carattere e alla sua età di "botte da orbi". La sua personale e incompleta visione dei precetti intorno ai quali ruotava la vita della sua stirpe l'aveva portata a perfezionare l'arte del Palmo, l'offesa e la resistenza fisica, con conseguenze vistose e deleterie sul resto della sua forma. In famiglia, il punto debole di Mei era già noto: la ragazza era lenta, tanto nel corpo quanto nella mente - una lacuna gravissima in un'Arte che faceva del movimento la sua costante.
    Per ovviare a ciò, sua sorella Kaya - la favorita al titolo di quindicesima erede del dojo Kobayashi - decise di prendere la situazione in mano: e fu così che, una mattina, prese con sé la penultima della generazione e la condusse nel bosco dietro casa.

    La loro destinazione era una radura a circa mezz'ora di cammino, un declivio di norma dolce che una pioggia fine cominciata la sera precedente aveva reso una pendenza fangosa e impervia.
    Mei, tanto sarcastica quanto caustica, domandò alla sorella se avesse intenzione di ucciderla con quell'allenamento; e la risposta che ricevette fu un placido ma secco: «Dipende da te.».
    La zona tutta era contrassegnata da profondi solchi circolari colmati con rocce, formazioni artificiali non intrusive che i suoi antenati avevano edificato e sostenuto attraverso i secoli, una generazione dopo l'altra. Mei sapeva da tutta una vita cosa fossero: spazi preposti all'allenamento dei movimenti, anch'essi detti "cerchi". I suoi antenati non erano certo stati creativi nel dare i nomi alle cose.

    Ancora assonnata e frustrata dalla fanga e dal maltempo, Mei chiese alla sorella quali fossero esattamente i suoi piani.

    «Prendilo come un gioco.»
    Disse, con voce gentile tanto quanto il suo Palmo.
    «Un gioco di acchiapparello, da fare all'interno del cerchio.»

    Mei sbuffò, infastidita.
    Kaya la reputava talmente debole da non meritarsi nemmeno un vero allenamento?

    La risposta che ricevette non venne mai registrata dal suo occhio.
    Il Palmo di Kaya era delicato come il tocco della loro mamma, ma l'impatto ch'esso aveva sul corpo era pari a quello di un piccolo sasso, con delle calde e pulsanti effusioni che si propagavano attraverso il corpo ben dopo il colpo.

    «Stai sotto.»
    Disse, con sorriso genuino e grossi occhi verdi da bambina, il corpo di lei in movimento in senso orario.

    Mei cercò d'imitarla, ma fallì miseramente.
    I movimenti delle due erano in teoria i medesimi; ma laddove la maggiore pareva fluttuare elegantemente al di sopra delle zolle di terra bagnata, le leve della minore la pestavano e, trascinate dall'attrito, vi scivolavano sopra in malo modo, portando la ragazza a rovinare a terra più e più volte. Ogni caduta e ogni scivolone lungo il cerchio le urlavano a gran voce dovr fossero gli errori; e lei capiva, capiva, ma non aveva modo di porre rimedio ad essi se non rialzandosi e continuando a fallire.
    Le unità si erano fatte decine, e il tempo era passato; i primi bagliori dell'alba si erano trasformati in una più intensa luce, soffocata da un manto grigio che, pian piano, stava smettendo di piangere. Ma la pioggia e il terreno bagnato non erano che metà del problema: il doversi muovere in cerchio lungo il crinale di una collina era per Mei cosa ancor peggiore.

    Dopo l'ennesima caduta, collera e frustrazione presero il sopravvento. La ragazza cambiò strategia, sostituendo il movimento circolare ad una carica baldanzosa: la gamba posizionata in avanti disegnò un semicerchio sul terreno, slittando agilmente in avanti a meno di un passo dalla sorella. Il palmo sinistro di Mei si slanciò verso il bersaglio, pronto a colpirlo al tronco.
    Per un attimo, alla ragazza parve di avercela fatta; ma, il tempo di torcere il busto, e il bersaglio scivolò via sia dalle sue mani che dagli occhi. Peggio ancora, fu a questo punto che Mei si rese conto che la gamba rimasta in posizione arretrata la tradì, venendo meno a causa della duplice intesa di gravità e attrito. La ragazza ruzzolò, rotolando una, due, tre volte.
    Aveva messo male il piede, pensò.
    Aveva messo male il piede, perché non aveva tenuto in considerazione la pendenza.
    Sporca da capo a piedi, Mei sbatté il pugno sul terreno, lasciando che il suo risentimento sgorgasse dagli occhi per andare a mescolarsi alle lacrime versate dal cielo.
    Odiava trovarsi faccia a faccia con i propri limiti.

    Quando si fu calmata, il volto di Kaya fece capolino nel suo campo visivo.
    Inudita, imperturbata, con un sorriso affettuoso.

    «Stai migliorando.»
    Disse, porgendole la mano sinistra. La destra, invece, le appoggiò sul petto un asciugamano.

    «Alzati e pulisciti. Poi, riprova.»
     
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    Allenamento settimanale 2/3

    Dojo Kobayashi, villaggio di Koreto, repubblica di Padokia

    Oltre al cerchio, un altro pilastro fondamentale dell'Arte era il movimento. Gli scritti insegnavano che la natura del tutto fosse il mutamento, e che l'uomo doveva vivere assecondando tale principio. La traslazione di tale massima all'interno dell'Arte imponeva ai discepoli del Palmo degli Otto Trigrammi di muoversi costantemente sul campo di battaglia, girando costantemente intorno agli avversari. Tracciare un Cerchio, ed esprimere così la perfezione assoluta.

    «Ciò che l'allievo tende a dimenticare, però, è che esistono diversi Cerchi. Si concentrano su quello che tracciano intorno all'avversario, dimenticandosi dell'esistenza degli altri.»

    Era passata circa un'ora da quando Mei era quasi riuscita a sfiorare la sorella; e da allora non vi erano stati ulteriori progressi. Le nubi cariche d'acqua si erano spostate a Sud, lasciandosi dietro una coltre di nuvole più mansuete, ma talmente fitta da impedire ai raggi solari di riscaldare e solidificare la terra. Mei avrebbe dovuto convivere con quella difficoltà aggiunta per tutta la durata dell'allenamento... E questo Kaya lo sapeva. Anzi, di più: era molto probabile che avesse visto le previsioni del tempo e orchestrato il tutto.

    «Prendiamo il tuo impeto di un'ora fa, ad esempio. Mettiamo caso che non fossi scivolata.»

    Per Mei, la risposta era scontata; per Kaya, che finì per dire ciò che la sorella minore stava pensando, lo fu ancor più.

    «Ti saresti ritirata e avresti cercato una nuova occasione, giusto? Questo era ciò che il tuo corpo suggeriva in quel momento. Ma se ti fossi ricordata del cerchio ai tuoi piedi, se avessi fatto perno sul piede della gamba in avanti, avresti potuto rispondere con un calcio, mettendomi in difficoltà.»

    La ragazza ci pensò sopra, stizzita. Inutile a dirsi, l'altra aveva ragione. Il concetto dei Cerchi più piccoli, dei Cerchi nei Cerchi e quel tipo di sottigliezze nel movimento non le era mai veramente sfuggito - difficile che succedesse quando passavi una vita intera ad allenarti - eppure, le diverse priorità della ragazza avevano finito per accantonare quelle nozioni, con risultati a dir poco tragici, come mostrato da quella sessione. Le prospettive, per lei, non erano affatto buone...

    «Conosci già i passi.»
    Enunciò la sorella, a voler impedire a Mei di rimuginare su quei pensieri.
    «Devi solo perfezionarli.»

    Mei scattò nuovamente, cercando di cogliere la sorella dal lato. I movimenti incerti e claudicanti tipici dell'ora precedente erano ormai mutati, sostituiti da movenze più flessibili e leggere. L'intuizione di prima l'aveva portata a pattinare sul terreno, ad approfittare dell'acqua per scivolare su di esso e colmare la superiorità della sorella. Poco alla volta, le falcate si erano fatte più ampie, in conseguenza della sempre crescente fiducia.
    Sapeva come muoversi nei Cerchi più piccoli, sapeva come sfruttare i movimenti di ogni parte del suo corpo, fosse stata anche solo la teoria. Cercò la gamba di Kaya con un palmo basso, che divenne una torsione del busto e del tallone e, mediante uno slancio dell'altra gamba, un calcio. La terra sotto di lei si smosse, il baricentro fu compromesso. L'abitudine forgiata da anni e anni di pratica subentrò, spingendola a prepararsi alla caduta; ma l'istinto, l'istinto subentrò di nuovo.
    Lungi dall'arrestare il moto, Mei provò ad assecondarlo con un colpo di reni, sfruttando la pendenza del terreno per darsi lo slancio in una caduta controllata e picchiare sulla sorella, che si trovava sul lato basso del crinale, come un falco sulla propria preda. Con un gioco di gambe sorprendentemente rapido per lei, portò le gambe al busto e unì i piedi, continuando a usare le natiche per scivolare lungo il declivio; poi, al momento giusto, saltò.
    Ah, ora sì che vedeva il Cerchio.
    Non era come lo descrivevano le scritture, ma l'energia che emanava, la sensazione di "giusto" che trasmetteva era davvero incredibile.
    La gamba sinistra si tese, rivolta verso il braccio destro della sorella. La parte superiore del tronco roteò, una reazione istantanea e parallela a quella di Kaya, le cui movenze aggraziate avevano già tracciato il cerchio che l'avrebbe portata alla salvezza. Ma Mei lo aveva visto, lo aveva già scorto, e per questo il suo tronco aveva roteato a mezz'aria, e le braccia si erano già tese verso il terreno. L'impatto non fu violento, ma ricordò molto il fare di una molla. Le braccia della ragazzina erano forti, e il fatto che il subconscio sapesse già cosa fare rese quel movimento fluido e vibrante. Facendo leva sulle braccia e richiamando ancora una volta la gamba a sé, la ragazza dai capelli blu roteò su sé stesse di 90° e si spinse nella nuova direzione data dall'angolo, inseguendo l'avversario senza perdere troppa velocità. Gli arti di Mei turbinavano alla ricerca di Kaya, in una danza estatica fatta di piroette, semicerchi e archi disegnati a terra così come a mezz'aria. Anche se la forma non era perfetta come quella della sorella, la ragazza poteva sentire la resistenza del terreno farsi sempre più flebile. Quello che, fino ad allora, era stato suo nemico, stava divenendo una minaccia sempre meno temibile; e chissà che, col tempo e con la pratica, non sarebbe finito per diventare un prezioso alleato. Kaya diceva il vero: Mei ricordava i passi e le transizioni. Doveva solo investire del tempo nel metterle in pratica.

     
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    Allenamento settimanale 3/3

    Dojo Kobayashi, villaggio di Koreto, repubblica di Padokia

    Rotazioni sul piede, sull'avampiede, sul tallone e sull'alluce; scarti a uncino frontali, laterali e all'indietro; rotazioni sul proprio asse e su quello del proprio avversario. La lista di movimenti assimilati negli anni da Mei era lunga e variegata e, dopo un'altra ora trascorsa a sforzarsi di riutilizzarli tutti, fu sorprendente per lei constatare quanto fosse migliorata rispetto al momento in cui si era aveva ripiegato il suo giaciglio e dato il via alla giornata.
    Al tempo stesso, una voce dentro di lei continuava a ricordarle che sì, era migliorata e tutto, ma i progressi complessivi erano ancora minimi, e che un solo giorno di acchiapparello improvvisato non sarebbe bastato ad apportare un cambiamento significativo e duraturo. Bastava vivere nel presente per rendersi conto che, per quanto si sforzasse, i Cerchi da lei tracciati erano grossolani ed eseguiti con penosa lentezza; che le rotazioni di base non risultavano sempre fluide e che molte di quelle più avanzate le risultavano estremamente complesse; che l'istinto, o, per meglio dire, la concentrazione, era cosa assai difficile da mantenere per periodi prolungati di tempo; e che - e questa era la prova di tutte le prove - se fosse migliorata così tanto sarebbe già riuscita a toccare la sorella.
    Intenzionata a non demordere, Mei si preparò ad un nuovo assalto.
    Le distanze si erano ridotte sempre più. La vittoria era solo questione di tempo.

    Palmo discendente, finta, transizione ad una spallata. Gambe flesse, piedi pronti ad assecondare il moto generato in previsione di una fuga nemica, esitazione. Gli occhi scorgono l'evanescente Cerchio dell'avversario, comprendendone gli intenti. Gioco di talloni, un giro su sé stessa di 90° e un piccolo balzo in avanti, con un ginocchio piegato a costituire un offesa. Kaya è sfuggente e perlopiù imprevedibile, ma la distanza è ormai minima.
    Contrordine: è lei a volere che sia minima. Perché sono partite dai Cerchi più grandi, no? Hanno cominciato con spostamenti ad ampio raggio e inseguimenti, per procedere con movimenti sempre più misurati e precisi.
    Le fattezze dell'ambiente circostante si fanno sempre più indistinte nella nebbia di guerra, ma Mei percepisce chiaramente la presenza della sorella: può sentire l'aria spostarsi a causa dei movimenti di lei, i lievi fruscii emessi dalla sua danza, il calore dell'ambiente circostante. Le due donne girano l'una intorno all'altra, con la prima che cerca la seconda senza però mai trovarla, in un ennesimo Cerchio che sembra destinato a ripetersi all'infinito. Poi, qualcosa accade. È un colpo fortuito o un fenomeno preternaturale; fatto sta che una mano di Mei arriva quasi a sfiorare la gamba di Kaya... Salvo essere deviata da uno degli avambracci di lei. Ci sta, pensa Mei, mentre tenta d'infilare nella guardia nemica una tallonata a tradimento: in fondo, non si era mai parlato dell'impossibilità di controbattere. Il tallone viene evitato, dando a Mei lo spazio di manovra sufficiente per disegnare un semicerchio con la gamba opposta e cercare di eseguire uno sgambetto. Le gambe si muovono, lavorano come mai prima d'ora, ed un misto di concentrazione e l'eccessiva vicinanza al nemico rendono la ragazza eccessivamente sicura di sé, convincendola che potrà andare avanti così in eterno...

    ... Finché il sogno non finisce e la realtà subentra.
    Quello che era stato visualizzato dalla mente come un calcio, il corpo lo rese pugno; una dissonanza al seguito della quale le gambe si appesantirono e si fermarono del tutto, incapaci di rispondere a qualsivoglia stimolo o sforzo di volontà. Mei cadde come corpo inerte cade. Troppo stanca per provare rabbia e troppo pesante per rialzarsi, si limitò a farsi spostare dalla sorella contro il tronco di un albero. E, cosa ancor peggiore, fu costretta a sentirsi fare la ramanzina. Ugh, perfetto.

    «Dovrai continuare a lavorare sui tuoi Cerchi... e anche sulla resistenza fisica.»

     
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    Dojo Kobayashi, villaggio di Koreto, repubblica di Padokia

    Oltre al Cerchio, un altro caposaldo dell'Arte del Palmo degli Otto Trigrammi era, per l'appunto, il palmo.

    Secondo gli scritti tramandati dai maestri perfezionatori dell'Arte, il palmo - da intendersi, in questo caso, come palmo della mano o, in una più eterodossa alternativa, come pianta del piede - era il tramite, la parte del corpo da cui il praticante emanava il suo riverbero, armonizzando sé stesso al resto del mondo e, con il giusto esercizio, plasmandolo attraverso la propria forza di volontà.

    Questa era la verità tramandata dagli antenati, unica e insindacabile; ma la mancanza di una fonte univoca che indicasse come arrivare a tale risultato, che svelasse il cammino più congeniale per ottenere tale capacità, aveva fatto sì che ogni capofamiglia (e persino vari membri del ramo principale) avessero sviluppato delle concezioni diverse le une dalle altre, talvolta in accordo, altre volte in contrasto, con le idee della generazione precedente.

    Il Palmo (da intendersi ora come stile di combattimento ed espressione dell'Arte) del quattordicesimo successore di Jūyonburo Kobayashi, ad esempio, era stato riconosciuto come "fermo", a testimonianza della sua resistenza e possanza fisica. Quello del suo successore, Kaya, era stato invece denominato "gentile", in virtù del suo essere più simile ad un tocco che ad altro.

    Quanto al Palmo di Mei, esso era ancora troppo acerbo e informe per aver ricevuto una qualsivoglia denominazione - ma i suoi parenti già erano sicuri del fatto che sarebbe stato riconosciuto come "vigoroso", "possente", "furioso" o qualcosa di simile.

    Anzi, non "i suoi parenti": era lei che ne era convinta.

    Mei, infatti, fantasticava spesso sul futuro della sua Arte: e già si vedeva ad attribuire al suo stile uno degli aggettivi di cui sopra o, giusto per ispirarsi alle personalità più famose della Repubblica di Padokia, qualcosa di insidacabilmente figo come "Oscuro", "Assassino", "Letale".

    Era per questo motivo che, più del Cerchio, ciò su cui la ragazza dedicava la maggior parte della sua veglia erano gli allenamenti di forza e di resistenza.

    I suoi allenamenti avevano spesso inizio e fine con una gita nei boschi dietro il dono, presso i campi di allenamento: qui, quercie secolari, cascate e altre formazioni naturali, davano ai membri della famiglia tutto il necessario per praticare e perfezionare la loro vocazione marziale.

    Nei meandri della natura selvaggia, vi era un fitto di sempreverdi altri più di quaranta metri che Mei soleva usare come manichini. Alberi enormi, dal fusto grande come una casa, le cui dimensioni pantagrueliche e lo spessore del tronco le avrebbero garantito esercizi per una vita intera. Mei sapeva che nemmeno Kaya era mai riuscita ad abbattere uno; e aveva sentito che suo padre, una volta, era quasi riuscito a segnare uno dei tronchi di questi alberi per tutta la lunghezza del suo braccio.

    L'allenamento di Mei era, proprio come chi lo eseguiva, estremamente semplice. Dopo aver passato anni e anni ad effettuarlo, la ragazza non aveva più bisogno di riscaldarsi i palmi con pezze d'acqua, terra o gesso; né, tantomeno, aveva più bisogno di affidarsi ai calli che avevano imbitorzolito le sue mani per almeno sei anni di vita. Senza perdere più tempo del necessario, la ragazza si metteva in posizione di guardia e si avventava sul solito tronco, palmo, dopo palmo, dopo palmo. Niente Cerchi, niente movenze particolari, niente colpi arzigogolati: solo una pura dimostrazione di forza, dalla distanza di un braccio completamente teso fino a quella di tre quarti di braccio, quando diventava necessario rivolgere il palmo verso il basso e posizionare il braccio a mo' di uncino per colpire.

    L'apparente semplicità di tale esercizio non è però da fraintendersi, poiché molti erano gli stimoli subiti dal fisico, e altrettante le membra allenate.

    Per prima cosa, infatti, il fatto che ogni colpo venisse portato fin da subito a piena potenza dovrebbe dare un'idea della sollecitazione a cui i palmi di Mei venivano sottoposti ogni volta. La corteccia spessa della sequoia, la sua mole più che imponente e la sua età, infatti, la rendevano non dissimile ad un edificio in cemento armato - il che voleva dire che colpirla equivaleva a colpire un muro. Pratica ed esperienza avevano garantito alla ragazza un'alta soglia di tolleranza, permettendole di effettuare i primi sessanta colpi senza conseguenze; superati quelli, tuttavia, i capillari cominciavano a rompersi, le mani ad arrossarsi, le falangi a subire il contraccolpo e gonfiarsi. Questo stato di cose portava Mei a stringere i denti, segno che, come ogni giorno, la sua guerra d'attrito contro il legno stava per avere inizio.

    Altri trenta colpi o giù di lì erano necessari per fare rallentare il ritmo della ragazza. Il punto di rottura avveniva sempre a causa di un impatto più forte del previsto, una scheggia di legno che volava via a causa di una perdita di concentrazione, una rottura della forma a cui la ragazza dichiarava di non fare mai veramente attenzione, salvo finire per usarla quando il gioco si faceva duro e gli insegnamenti di famiglia non restavano l'unico appiglio possibile per una volontà vacillante.
    Rompere il ritmo voleva dire prendersi un minuto per ricomporsi, fare un passo indietro per poter tendere nuovamente il braccio, o anche solo imprecare alla ricerca di qualche istante prezioso atto a ritrovare il suo equilibrio, o quantomeno provarci.

    Tale equilibrio, però, non tornava mai.

    Una volta persa la forma mentis, questa svaniva per il resto della giornata, sostituita, nel giro di una ventina di colpi, dall'aprirsi delle carni e dallo zampillare del sangue. Una benedizione temporanea, un intorpidirsi dei sensi che garantiva un sollievo che si protraeva per ben due serie da quaranta colpi, quando le cose andavano bene.

    In ogni caso, però, il sollievo aveva prima o poi fine. Quando ciò accadeva, tutto ciò che restava era il riverbero.
    A questo punto, i Palmi di Mei finivano per scorticare il tronco e rivelarne le ignudità - cosa che la portava a colpire quella che veniva definita "l'essenza stessa" della pianta. Era a questo punto che l'atto si trasformava in dolore della forma più pura. Il Palmo impattava con tutta la forza residua, e il corpo rispondeva, vibrando come la cassa armonica di una chitarra, o come l'amplificatore del basso della ragazza. Mei sentiva chiaramente il riverbero entrare nel punto di congiunzione delle sue dita, un'onda viva che la percuoteva dall'interno, liquefacendo il suo cervello come avrebbe fatto un'arma aliena di quei libri di fantascienza.

    Il ritmo rallentava, ma Mei andava avanti e colpiva.

    Si fermava, prendeva fiato e colpiva.

    Si fermava ancora, incespicava e si rimetteva in guardia.

    A volte colpiva.

    Altre volte, vomitava, si fermava per qualche minuto e poi, con titubanza, colpiva.

    L'esercizio aveva termine solo quando la ragazza non colpiva più, e il suo corpo cadeva stremato ai piedi del sempreverde. Mei beveva qualcosa, giaceva spossata nei familiari boschi della sua infanzia finché non riprendeva le forze necessarie a camminare. Dopodiché, tornava a casa, la sua mente proiettata verso le varie faccende di casa e la cura del dojo.



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    Dojo Kobayashi, villaggio di Koreto, repubblica di Padokia

    Con il termine "cura del dojo" erano da intendersi non solo pulizia generali di corridoi, tatami e dormitori degli allievi, l'andare a fare la spesa, il cucinare e tutte quelle faccende che Mei desiderava sparissero dalla faccia della terra, ma anche i più basilari compiti di supervisione dell'allenamento degli altri praticanti dell'Arte.

    "Supervisione", però, era una parola grossa... Troppo grossa.
    A dispetto del fatto di essere nata nella famiglia Kobayashi e di aver cominciato ad addestrarsi nell'Arte poco dopo aver cominciato a camminare (o, almeno questo è ciò che andava dicendo in giro), il rango di Mei era troppo basso per garantirle il privilegio di insegnare. Questo principio si estendeva non solo all'insegnamento formale di Kata, colpi e della filosofia, ma si estendeva persino all'intervento diretto nelle sessioni di allenamento, di qualsiasi entità fosse.

    In soldoni, Mei non poteva nemmeno azzardarsi a fare notare ad un altro allievo la sua postura errata, pena una punzione tanto variabile quanto ingiusta.

    Ma, allora, quali erano i suoi compiti in simili frangenti?

    Per dirne uno, fare da punching ball.

    Impossibilitata a insegnare o a correggere, il compito principale di Mei in caso di lezioni collettive era proprio quello di fare da sparring partner, ripetendo le tecniche di base insieme all'allievo di turno e, più spesso, prestandosi a subire il Palmo altrui.

    Al pari degli allenamenti nel bosco, anche queste sessioni si ripetevano a cadenza giornaliera - un'evenienza più che ben accetta, considerato che Mei aveva bisogno di tutto il tempo possibile per riposare le mani.

    Qui, la parte del corpo maggiormente usata diveniva il tronco. In qualità di manichino, infatti, capitava spesso che Mei si ritrovasse a fare pratica con novizi o praticanti di medio livello, i quali, incapaci o poco avvezzi nel seguire le mosse e al tempo stesso il bersaglio, trovavano in esso la parte del corpo più facile da colpire.

    Incassare bene i colpi era un'impresa dalla difficoltà variabile. Rispetto ai suoi fratelli e alle sue sorelle, Mei era piuttosto coriacea per la sua età, cosa che le permetteva di attutire piuttosto bene buona parte degli impatti; ma, come sempre c'erano vari fattori da tenere in considerazione.

    Il primo, come nel caso degli allenamenti mattutini, era il tempo.
    Mei poteva anche essere forte, vigorosa, resiliente: ma, come tutti gli enti del creato, anche lei aveva un limite. La sessione degli allievi con cui aveva a che fare sarebbe durata venti, trenta o quaranta minuti (a seconda delle disposizioni del maestro di turno); dopodiché avrebbero lasciato il dojo, recandosi altrove per andare avanti nella loro vita.
    Mei, invece, avrebbe atteso l'arrivo del gruppo successivo, poi di quello dopo ancora, poi di quello dopo ancora, fino a poco prima dell'ora di cena. Colpo, dopo colpo, dopo colpo, avrebbe incassato senza reagire, limitandosi ad effettuare degli ukemi nei casi che lo richiedevano. E, proprio come le sue mani, il momento in cui sentiva che le costole avrebbero ceduto si avvicinava inesorabile, proprio come i morsi della fame o della sete. Ogni giorno, il suo corpo veniva percosso dal Riverbero altrui: le fasce muscolari distrutte, la fatica accumulata. Certo, aiutava il fatto che quella fosse una situazione controllata, e che gli allievi sapevano di non dover tirare troppo la corda...

    ... Finché non lo facevano.
    Era questo il secondo fattore determinante in quelle prove di resistenza: l'imprevisto.
    Un allievo particolarmente scalmanato, desideroso di attenzione o smargiasso; qualcuno con un po' troppa malizia nel cuore, qualcuno che osava insozzare il dojo portandovi al suo interno i rancori della vita al di fuori di esso; o, peggio ancora, un semplice misto di entusiasmo, inesperienza e mancanza di disciplina: tanti erano i motivi che portavano qualcuno a colpire con più forza del solito e nei momenti più inaspettati.

    Colpi al diaframma, alla bocca dello stomaco, oppure verso il cuore, a volte volontari ma più spesso no: errori che potevano sempre capitare, specialmente quando solo il maestro poteva correggere gli errori e prevenire gli incidenti.

    A volte, Mei era fortunata. Se riusciva a vedere l'imperfezione nella forma, riusciva a spostare il corpo quel tanto che bastava per risparmiarsi un dolore maggiore. Altre volte, però, capitava che il praticante notasse il suo spostamento e modificasse la traiettoria di conseguenza, deciso più che mai a eseguire la tecnica come l'aveva concepita o a rendere realtà la scena che aveva più e più volte vissuto nella sua fantasia.

    Altre volte ancora, invece, i praticanti mostravano un po' di tecnica in più - un'inclinazione innata per l'arte che li portava ad essere più rapidi, più veloci o più precisi, causando quello che nel gergo dei ragazzi alla moda di York Shin si chiama "colpo critico". Lì, qualsivoglia forma di preparazione diventava pressocché inutile, e fatica e sofferenza ne prendevano invece il posto.

    Faticare. Soffrire. Rialzarsi.

    Faticare. Soffrire. Rialzarsi.

    Le mani la mattina, il tronco il pomeriggio, ogni singolo giorno.

    Poi, la sera. Il riposo.

    Poi un nuovo giorno.



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